Per il mio primo viaggio a piedi ho scelto di andare a Santiago di Compostela perché, da quando ho letto L’acchiappasogni di Stephen King, so che per non sbagliare strada devo cercare e seguire la riga gialla e quando la perdo di vista mi sento smarrita.
Fuor di metafora (ma neanche tanto) ho aspettato tanto a fare un viaggio da pellegrina perché mi perdo (e Filippo è peggio di me). Ci perdiamo con il navigatore, ci perdiamo con le carte geografiche e facciamo fatica a seguire qualunque tipo di indicazione. Ci perdiamo ovunque, anche se non ci perdiamo d’animo mai (litigi a parte, che fanno parte del gioco). Tutte le strade portano a Roma, si dice, ma non è vero: tutte le strade (romane) portano a Roma e a Santiago di Compostela, da secoli. Impossibile perdersi: a ogni svolta c’è una freccia e la freccia è gialla. Come la riga. Per molti la “riga gialla” (Flecha Amarilla) è la fede, ma non è il nostro caso. Partiamo per camminare, per andare a piedi da un posto all’altro, per far andare le gambe spegnendo il cervello, per rallentare. Partiamo per sperimentare una forma di viaggio che sta diventando sempre più importante: il 2016 è stato l’anno dei Cammini e dobbiamo viverlo per poterlo capire (e per aiutare i nostri clienti nel turismo a capire).
Scegliamo di seguire il Cammino Portoghese, che va da Porto a Santiago, perché è fattibile in dieci giorni (sono 250 chilometri) ed essendo vicino all’Oceano dovrebbe fare meno caldo con minor rischio di piogge. Il terzo motivo è che amo molto il Portogallo: sono di Taranto, i porti sono la mia casa.
Cose sul Cammino di Compostela che avrei voluto sapere prima
Ci sono quattro cose che non sapevo e che ho scoperto durante il Cammino, quattro informazioni che se le avessi avute prima forse avrei scelto un altro viaggio.
- Santiago – San Giacomo – era un santo guerriero, noto anche come Matamoros (uccisore di Mori): praticamente uno dei protagonisti della Reconquista.
- Ci sono tanti tratti semiurbani, che abbiamo soprannominato sprawlagna, l’angoscia delle periferie
- È veramente difficile mangiare sano, e non perché ti viene fame; soprattutto in Portogallo ci sono tappe in cui le uniche cose commestibili sono talmente salate che sono stata gonfia come una zampogna per i primi cento chilometri.
- Metà del fascino del Cammino pare derivare da un libro di Coelho che avevo miracolosamente schivato.
Il primo punto in particolare mi ha abbastanza angosciato e non a caso non viene granché sottolineato, anzi, viene nascosto. Se pensate di fare un pellegrinaggio di pace, andate ad Assisi. Oppure fate come se non ve lo avessi mai detto, anche se mi rendo conto che è una cosa difficile da dimenticare. Perché un pellegrino è “un essere votato a seguire fino in fondo un percorso già tracciato”: puoi (e secondo me devi) farlo a modo tuo, ma è il percorso che crea l’esperienza, il percorso e chi lo percorre.
Come si affronta un Cammino
Se pensi di fare un Cammino, cioè un viaggio a piedi su un percorso che ha una storia e un significato, non dare retta a chi ti dirà che va fatto in un certo modo: è la strada a fare il Cammino, non dove dormi, cosa mangi o con che spirito parti. Non a caso Ignazio di Loyola, uno che amava presentarsi come il Pellegrino, “inventò un modo nuovo di consacrarsi a Dio”: se scegli di seguire un tracciato fino in fondo fallo come ti senti, non come ti dicono (e magari scoprirai che ti senti molto diverso da come credevi).
Posso dirti fin d’ora che non sono tornata diversa, non ho avuto nessuna illuminazione, grande idea o visione. Sono tornata leggera, leggera com’ero prima di un’infilata di lutti che avrebbero schiantato un dio minore, mentre io facevo spallucce e finta di niente finché un osteopata mi ha detto “è come se tu camminassi portando due sacchi di cemento sulle spalle, sai?”. Sono tornata leggera un po’ perché 250 chilometri a piedi ti regalano piedi e caviglie da sfilata, molto perché dover trasportare tutto quello che serve sulle spalle ti aiuta tantissimo a deporre i pesi inutili ai bordi della strada (sacchi di cemento compresi). Il primo peso lasciato cadere è stato la convinzione secchiona di dover per forza dormire negli albergue (gli ostelli per i pellegrini), ma non anticipiamo troppo.
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Cosa portarsi dietro in un viaggio a piedi
Tutti dicono che le scarpe sono la cosa più importante e io non posso che confermare: scarpe da trekking (non in Goretex a meno che non sia inverno) già ampiamente testate e di almeno un numero più grandi. Un paio di scarpe da trekking, un paio di sandali da trekking (se cammini d’estate) e un paio di infradito. Aggiungo solo che la seconda cosa più importante sono le calze: almeno due paia delle migliori calze antivescica.
Poi lo zaino, che dev’essere abbastanza capiente da non farti impazzire a riporre tutto ma non così grande da farti rischiare di portare troppe cose. La capienza in più serve per l’acqua e per il cibo, così puoi portarti dietro quello che hai voglia di mangiare. Io ho usato delle buste da abiti per organizzare gli spazi e ne sono stata molto felice, perché lo zaino lo fai e lo disfi un miglione di volte e spesso in situazioni scomode.
Infine le racchette da nordic walking, se possibile con la punta di gomma, se no sull’asfalto fanno un rumore molto fastidioso. Non fare l’errore di considerarle un gadget: le racchette fanno andare più veloce e permettono di scaricare il peso dello zaino moltiplicando la spinta delle gambe. Imparare a usarle correttamente è un attimo, basta guardare un video. Non risparmiate: scarpe, zaino e racchette devono essere della massima qualità possibile. Saranno la vostra casa.
Uno degli aspetti più rilassanti di un viaggio di questo tipo è che ti porti dietro pochissime cose e quindi, per un po’, non devi decidere come vestirti. Questo però significa anche che, dopo un po’, non ne potrai più e a quel punto sarai felice di aver fatto due cose: aver infilato nello zaino un vestitino di quelli che occupano pochissimo spazio (ok, questo vale solo per chi usa vestitini) ed esserti spedita a Santiago un paio di abiti decenti (c’è un servizio apposta, quindi non sentirti troppo scema: si chiama Lista de correos).
E non è vero che se lavi i vestiti sporchi la sera asciugano in tempo per la partenza la mattina dopo: è una bugia pietosa. La mattina dopo troverete tutto ancora bagnato, è per questo che gli zaini buoni hanno uno scomparto per la roba umida. Ti sarà utile anche per l’orrido asciugamano in microfibra e per far prendere aria al sacco-lenzuolo, che ti consiglio di portare anche se non hai nessuna intenzione di usarlo.
Le guide cartacee si rivolgono soprattutto al pellegrino credente e che ha bisogno di spendere il meno possibile, risultando un po’ fastidiose per chi ha uno spirito diverso e magari ritiene che lasciare qualche soldino sul territorio che si attraversa sia cosa buona e giusta.
Io ho trovato molto utile l’app Camino Portugues che ha gli itinerari in Google Maps con tutti i riferimenti necessari. Costa 2 euro e 99 e li vale tutti. In Portogallo c’è wi-fi ovunque e puoi caricare la mappa quando c’è copertura e lasciarla aperta anche senza dati.
Non dimenticare: Compeed, cerotti normali, crema per i piedi (la mia preferita è di Caudalie), olio rinfrescante per piedi e gambe, arnica, Voltaren (crema e cerotti), una crema antibiotica meglio se con un po’ di cortisone (Gentalyn Beta), occhiali da sole, tappi per le orecchie, un cappello antisole e antipioggia, protezione solare (corpo, viso e uno stick), un e-reader, un taccuino, una cartina, un detersivo e bagnoschiuma e shampoo decenti (la polvere deprime e la doccia è un toccasana, se è profumata è meglio).
Mi rendo conto che, già da questo elenco, si intuisce come e perché siamo diventati quelli che siamo: due Spoiled Pilgrims, due pellegrini viziati. Una contraddizione in termini.
Le tappe del Cammino Portoghese
In teoria il Cammino Portoghese inizia a Lisbona, ma ci è subito sembrata un’aggiunta di comodo per non scontentare nessuno in una terra affamata di turisti. Non a caso il primo albergue è dopo Porto e due ciclisti australiani incontrati per strada ci hanno confermato che il tratto Lisbona-Porto è un percorso poco interessante e abbastanza slegato. Se avete tempo per fare tutta quella strada (da Lisbona a Porto sono circa 330 chilometri in più) fate il Cammino Francese.
Noi siamo partiti da Porto, dove ci siamo fermati un paio di giorni e dove ci siamo procurati la credenziale meglio nota il passaporto del pellegrino. È perfettamente inutile fare i salti mortali per procurarselo in Italia, basta andare alla Cattedrale di Porto (che ha anche una bella vista e vale la visita) e comprarlo al banco dei souvenir (costa un euro più offerta libera e i primi due timbri sono i loro). La credenziale è un documento religioso, che dice chiaramente che chi la porta “intraprende il viaggio per motivi spirituali”. Questa cosa ci ha un po’ turbato e alla fine abbiamo deciso di portarla con noi, di riempirla dei timbri necessari (è un bellissimo rituale) ma di non vidimarla all’arrivo per ottenere la Compostela, cioè il certificato che attesta che hai fatto almeno cento chilometri a piedi per arrivare a Santiago. La fede, anche se altrui, è una cosa seria.
A Porto abbiamo dormito in un b&b nuovissimo e molto bello, assaggiato l’Albarinho, il vino che ci avrebbe accompagnato per molte tappe, mangiato troppi pasteis (dolci e salati) e litigato ferocemente. Pare che un litigio o un gran pianto alla vigilia del Cammino faccia meglio dello stretching: questo non lo trovi scritto su nessun’altra guida, ma credo sia il consiglio migliore che possa darti. Alla partenza sarai eccitata, spaventata, innervosita e molto, molto insicura. Stai per fare una cosa totalmente innaturale, ma di cui hai una memoria ancestrale: lasciare un porto sicuro per andare nel vasto mondo con la sola forza delle tue gambe. Anche per questo siamo partiti con molta, molta calma: quello che a casa era “ma poi pensa che bello partire all’alba” è diventato “ma poi pensa che bello fare colazione con calma”.
Prima tappa – da Porto a Sao Paolo de Rates
Uscire da una grande città, attraversando la periferia, non è il modo migliore per iniziare un viaggio a piedi. Anche le guide più rigorose nel rispetto del Cammino infatti consigliano di prendere la metropolitana e di partire da fuori città. Abbiamo fatto così anche noi e abbiamo fatto molto bene. Si prende la metropolitana in centro e si scende a Vilair de Pinheiro evitando di fare i primi dieci chilometri nell’orrida periferia (e, se vi sembra di barare, di rischiare la vita attraversando un’autostrada).
Appena usciti dalla stazioncina, ovviamente, ci siamo sentiti persi. Nessuna freccia gialla, nessuna freccia, nessuna indicazione. La nostra principale motivazione per la scelta del viaggio immediatamente sconfessata, nonché l’unica situazione di incertezza sul percorso in 250 chilometri. È stata l’occasione per verificare una cosa che speri, ma a cui non credi: i portoghesi adorano i pellegrini. È bastato gironzolare per pochi secondi per essere soccorsi e aiutati da un gentile signore che ci ha messo sulla strada giusta (ovviamente in direzione opposta a quella che avevamo preso) e poche centinaia di metri dopo la seconda grande emozione: il primo timbro guadagnato sul nostro “passaporto del pellegrino”.
Un’altra cosa importantissima da sapere è: se c’è una deviazione consigliata, seguitela. In questo tratto, per esempio, allungando di un paio di chilometri (in realtà circa 4) si evita di fare una delle tipiche strade portoghesi, quelle che imparerai a odiare e a temere: strette, senza marciapiede e con guidatori appena usciti dal set di Duel. Le deviazioni non sono molte, ma sono indispensabili: evitano tratti brutti o pericolosi, come per l’appunto quello per Vilarihno.
Dopo circa venti chilometri – i nostri primi venti chilometri – la prima tentazione: una Quinta, cioè uno dei fantastici alberghi portoghesi ricavati da case in campagna. Tutti i nostri buoni propositi di sobrietà, risparmio e sanfrancescanesimo si infrangono davanti alla nostra famigerata passione per gli alberghi ed entriamo correndo e quasi scodinzolando solo per scoprire che no, alla Quinta Sao Miguel de Arcos non c’è posto. Ormai allo sbaraglio arranchiamo verso l’albergo successivo dove una gentile signora ci dice che no, non hanno posto, ma se siete “very tired” vi mettiamo due materassini nella sala colazione. La gentilezza ci aiuta a ritrovare le energie residue: ringraziamo, inforchiamo le preziose racchette e ci dirigiamo al nostro primo albergue, quello di Sao Paolo de Rates, a quattro chilometri.
All’arrivo non ci accoglie nessuno, ma un ragazzo tedesco molto gentile (che incroceremo spesso) ci dice di non preoccuparci, di segnare il nome, lasciare il donativo (6 euro + quel che vuoi) e occupare un letto. L’albergue è quasi bello: ci sono le camerate con letti a castello con i materassi di plastica e le coperte ruvide, occhei, ma c’è un bel patio con dei tavoli al sole, una cucina attrezzata e soprattutto delle fantastiche docce vere, cioè molto calde e con un vero rubinetto (non gli orrendi pulsantoni che non fai in tempo a sciacquarti). La doccia dopo 25 chilometri di strada a piedi è magia pura. Arrivi sfinito, strascicando i piedi, esci dalla doccia quasi nuovo. Mi asciugo i capelli al venticello e al sole, felice come un gatto.
Scegliamo un letto in una camerata quasi vuota. Il quasi vuota è un errore dilettantesco, ma lo scopriremo solo più tardi. Arranchiamo alla ricerca di un posto dove mangiare in un paesino bello e spettrale per quanto è deserto. Troviamo aperta solo una pizzeria in cui in Italia non entreremmo neanche dopo tre giorni di detox. Formica, televisore, foto dei piatti. Divoriamo due pizze come se le avesse cucinate Matteo Fronduti, annaffiate da birra e da abbondante wi-fi. Obrigado, timbro, obrigado, nanna.
Si fa presto a dire nanna. Sono le nove, sono sfinita, i francesi ubriachi cantano, il materasso scricchiola, le dita dei piedi doloranti continuano a urtare il fondo del sacco-lenzuolo, leggo. Alle dieci il coprifuoco, i francesi si spengono, chiudo il Kindle, chiudo gli occhi. Le camerate sono sulla strada dove a intervalli irregolari passa quello che dal rumore sembra il camion di Mad Max. Il nostro unico vicino latita, siamo soli. Mi addormento. Passa una macchina. Mi sveglio. Mi riaddormento. Passa una macchina. Mi sveglio. Mi rimetto a leggere. Mi riaddormento. Non passano macchine.
E poi sento una bestemmia (in tedesco? in francese?) e contemporaneamente il rumore di uno che inciampa e annaspa (nelle mie ciabatte, credo) e tira un calcio micidiale a uno zaino (il suo) e poi lo svuota sul materasso che cigola e cerca qualcosa e poi esce sgrufolando. Mi riaddormento. Dieci minuti dopo torna, si sdraia, cigola, ricigola e si addormenta come un bambino, senza fare un fiato. Tiro un respiro di sollievo e in quello stesso momento inizia il concerto: peti, rutti, starnuti, soffiate di naso, contorcimenti cigolanti e colpi di tosse. Faceva tutti i rumori tranne russare, rumori degni di Gargantua, ben intervallati con le auto. Macchina. Silenzio. Rutto. Macchina. Silenzio. Soffiata di naso. Macchina. Silenzio. Colpo di tosse. A ogni verso l’alcol usciva dal suo corpo per saturare la camerata. Filippo sorride sotto i baffi, io lo guardo, bestemmio e faccio finta di dormire.
Alle due di notte mi alzo e vado a guardare la situazione dell’altra camerata: ci sono due letti liberi. Torno, chiamo Filippo, sgattaioliamo via e mettiamo una sveglia inutile alle cinque e mezzo. Mi addormento, mi sveglio per fare la pipì, ma ho visto troppi film horror e decido che la pipì può aspettare. Mi scappa la pipì, ho caldo, poi dormo un po’ e ho freddo ma la coperta pizzica; dormiamo un paio d’ore di sonno sottile e alle prime luci dell’alba saltiamo su come due condannati a morte a cui hanno appena dato la grazia. Usciamo, raccogliamo la roba stesa la sera prima e ancora umida, ci vestiamo. Nonostante tutto sono felice: c’è un bel fresco, la luce radente dell’alba vicino all’oceano, le gambe stanche ma già più forti. Dietro di noi qualcuno grugnisce “Bom Caminho” e ci supera da destra: è l’orco, molto più fresco di noi, pronto a riprendere la strada.
Filippo non parla, so che tocca a me. Sono io che gli ho infinitamente rotto le palle con la storia della sobrietà, del sacrificio, dell’esperienza e della semplicità. Sono io che per mesi gli ho detto di non fare Lucignolo: dormiamo negli ostelli, mangiamo il menu del pellegrino, ci svegliamo all’alba etc etc etc.
Partiamo senza aver fatto colazione perché era tutto chiuso e il primo bar aperto è a sette chilometri di campagna umida e fresca di letame. Al terzo chilometro parlo.
“Amore, questa storia degli ostelli”
“Sì?”
“Bella idea, ma magari un’altra volta”
“Ma come mai dici così?”
“Ho già prenotato su Booking per stasera”
“(ride)”
“E anche per domani sera”
Al quinto chilometro gli chiedo quanto gli è costato l’attore che ha impersonato l’orco e se non pensa di aver esagerato con gli effetti speciali. Ridiamo molto, soprattutto dopo il caffè, un toast e un pasteis. L’orco ci accompagnerà per tutto il viaggio, anche se non lo rincontremo più. A ogni bellissimo albergo lo ringrazieremo per averci mostrato il nostro Cammino.
Seconda tappa – da Sao Paolo de Rates a Barcelos
Con una notte quasi insonne alle spalle la seconda tappa non parte proprio benissimo, ma finirà molto peggio. Basta guardare i tempi di percorrenza dei 17,5 chilometri tra Sao Paolo de Rates e Barcelos, tempi che salgono vertiginosamente e non per stanchezza o pigrizia. È noto che il secondo giorno è il più pesante: non sei ancora abituato a fare lunghe distanze in tempi lunghi, sei gonfio di acido lattico e se in più parti digiuno e non hai dormito, beh.
Succede questo: a un certo punto uno di noi due comincia ad avere un dolore di quelli brutti. Se sei abituato a fare sport in cui ti sposti sul territorio (come correre, camminare, andare in bici e simili) impari in fretta a distinguere tra fatica e dolore e tra dolore buono (quello che nasce da un muscolo che si risveglia) e dolore cattivo (quello che fa un muscolo o un’articolazione quando sta per danneggiarsi).
Il dolore alla tibia è a metà: non è cattivissimo, perché è tipico di quando inizi o aumenti molto le distanze, ma è stronzissimo, perché in teoria dovresti fermarti e aspettare che passi. Una parola, se sei in Cammino. Imparare a distinguere tra dolore buono e dolore cattivo è una cosa, imparare a prendere la decisione giusta decisamente un’altra. C’è poco altro da fare: o rallenti o ti fermi. Abbiamo rallentato. Abbiamo rallentato moltissimo. In alcuni punti ho seriamente pensato di abbandonare, per quanto abbandonare al secondo giorno sia veramente triste. Sia io sia Filippo abbiamo questa tigna al contrario, per cui siamo pigrissimi e bravissimi nel trovare alibi per viziarci, ma nello stesso tempo incapaci di capire se e quando la tigna è giustificata. Era giusto fermarsi? Era giusto sospendere? Lo racconta molto bene Alex Bellini: in certi casi l’eroismo non è continuare a ogni costo, ma rinunciare al traguardo, almeno per quella volta. Era quello il caso? Mentre questi pensieri ci abitavano, camminavamo. Sempre più piano. Sempre più spaventati. Lo zaino sempre più pesante. Sempre più cerottati. Avvolti in una nebbia di Voltaren e di sudore, appesi ai nostri Compeed. Un chilometro dietro l’altro dietro l’altro, chilometri di cui ahimè ricordo poco, tranne la bruttezza degli ultimi due, alla periferia di Barcelos. Quando ogni metro in più è un metro di troppo.
Arriviamo alla Barcelos Guest House alle due del pomeriggio: siamo abbrutiti, impolverati e stanchissimi. Ci accolgono con un sorriso, ci offrono un bicchiere d’acqua, ci danno subito la stanza. In realtà è un appartamento e anche bello: dopo una sola notte in un ostello la vista di un vero materasso e di un asciugamano di morbida spugna mi fa piangere di gioia. È qui che inizio vagamente a sentire (non a capire, che capire avevo già capito) cosa vuol dire essere un profugo. Stavo meglio prima, anche se non tornerei indietro.
Doccia, crema, crema ai piedi (grazie piedi grazie), Voltaren, letto. Riprendiamo i sensi ore dopo. L’idea di uscire e quindi di rimetterci le scarpe è terrorizzante. Prenoto il ristorante più vicino che c’è. Il ristorante più vicino che c’è sembra a Riccione (massimo rispetto, ma) e per fortuna ci dicono di tornare dopo, che la cucina non è ancora aperta. Ne scegliamo un altro, il Casa Dos Arcos, dove sono buffamente scazzati. Non so se avete presente quei ristoranti, frequenti anche in Italia, soprattutto sul Tirreno, dove quando entri ti guardano come dire “e questi cosa vogliono da noi?”. Si mangia malino, come spesso in Portogallo. Forse è il mio gusto che ormai è schierato a favore di sapori netti, puliti, non mischiati. Qui cucinano tutto quando con troppo sale. Chi se ne frega: ho fame, c’è l’Albarinho e ci aspetta un vero materasso e una vera notte di sonno. Ma soprattutto mi aspetta questo regalo qui:
Di Barcelos conserviamo un ricordo surreale di una cittadina bella e spaesata: dopo cena scopriamo che c’è una fiera medievale, con tutti gli abitanti vestiti come in una puntata di Fantasilandia e pochissima gente a crederci con loro. Una fiera di paese deserta, con un tramonto spettacolare e tanti, tanti galli; questa è la terra della leggenda del galletto di Schrodinger (mia liberissima interpretazione).
Terza tappa – da Barcelos a Casas do Rio
Dormiamo benissimo, facciamo una pessima colazione e decidiamo di farne una seconda. Qui incontriamo i nostri primi italiani: una coppia in bici, molto ansiosa all’idea che il cappuccino a loro servito non fosse vero cappuccino e una ragazza a piedi, da sola. Non li incontreremo più, anche perché fatti pochi metri scopriamo di aver sbagliato pasticceria. Vuoi non comprare una vagonata di pasteis freschi? Il dolore non è passato: ci incerottiamo e ripartiamo alla volta della Casas do Rio. La tappa di oggi, in teoria, dovrebbe essere di 31 chilometri, ma decidiamo di spezzarla a metà, incerti come siamo sul passo che riusciremo a tenere. Avendo imparato la lezione partiamo già prenotati, scegliendo un posto che promette servizi per i pellegrini. La vera notizia, però, è che nonostante tutto siamo ancora per strada.
Per strada, pian pianino, imparo di nuovo una cosa che avevo già scoperto correndo: un passo dietro l’altro, qualunque sia la velocità, si arriva. Il primo giorno, in media, ci abbiamo messo 12:31 per fare un chilometro, il secondo 15:07, oggi 15:17. La percezione però racconta una storia diversa. Il primo giorno ci sembrava di correre, il secondo di trascinarci, il terzo di arrancare.
Finalmente in un bar troviamo le conchiglie – le concha de vieira – e le appendiamo agli zaini: non è solo un simbolo e un portafortuna, ma nel tempo è diventato un lasciapassare. Oggi serve a poco, perché tutti qui in Portogallo aspettano e rispettano chi fa il Cammino, ma un tempo farsi riconoscere come pellegrino poteva fare la differenza tra la vita e la morte. La tradizione vuole che la si butti in mare a Finisterrae, considerata la vera ultima tappa. Io l’ho promessa a un bambino molto speciale nato il giorno della mia partenza e a Finisterrae arriveremo un’altra volta.
Non ricordo molto del percorso della mattinata, concentrata come sono sul cogliere ogni segnale in arrivo da Filippo. Ha senso andare avanti con un forte dolore? Lui dice di sì, io lo osservo, anche se con il sesto senso, perché adesso meno che mai riesco ad andare al passo di un altro e lo procedo sempre di qualche decina di metri, con stupidissimi sensi di colpa. Affrontiamo così quella che per le guide è una forte salita, condizionati anche dal nome del ristorante in cui ci fermeremo a pranzo. Il ristorante 2000. Siamo convinti di dover affrontare una vera tappa di montagna e arriviamo ridacchiando dopo una modesta salitina. Il ristorante è enorme, con interni da prima comunione e un discreto dehors con vista sul parcheggio dei trattori. Tutto questo tratto è in zone rurali, con tantissimi lavori agricoli e gran spargimento di letame :-)
Entriamo, ci sediamo, ci togliamo le scarpe, ignari di quello che sta per succedere. Birra, cibo mediocre, altri pellegrini agli altri tavoli. Uno colpisce la nostra attenzione. Capelli lunghi, voce roboante, pochi denti. Stiamo per conoscere il Manuel Fantoni dei pellegrinaggi. Qualunque strada nomini, lui l’ha percorsa. Qualunque destinazione citi, lui l’ha raggiunta. A piedi. Sempre. È con una donna che lo guarda a metà tra il divertito e il disperato, quello sguardo abbastanza tipico di chi sta pensando se la compagnia vale l’imbarazzo. Filippo, ovviamente, gli dà corda. Io, ovviamente, ho il piede che punta verso la soglia. Manuel parla, parla, parla, parla. Ho il terrore che si unisca a noi, millanto l’estrema lentezza del nostro passo, mentre la mia componente secchiona mi ricorda che il bello di un viaggio di questo tipo è fraternizzare, scoprire un’umanità diversa, aprirsi al resto del mondo. Ok, magari domani. Non sono pronta, non sono pronta, penso mentre Manuel parla, parla, parla. Poi, in un attimo, tutto si risolve: Filippo smette di giocare con la sua nuova lucertolina, recuperiamo scarpe, racchette e zaini e siamo salvi, fuori, soli. Siamo destinati a stare soli, io e quest’uomo, abbiamo da fraternizzare io e lui, non sono pronta a dare retta al resto dell’umanità.
Ripartiamo e ci dirigiamo verso la nostra meta per la notte, Casas do Rio, che si rivelerà uno dei posti più belli tra i tantissimi posti belli in cui siamo stati viaggiando. L’ultimo chilometro è, come sempre, pesantissimo, anche perché le indicazioni dicono “a cinque minuti dal Cammino”, ma non è vero, al nostro passo sono almeno quindici. Un consiglio: ai pellegrini meglio mentire per eccesso, se sono dieci minuti dite che sono quindici. Non si arriva mai, mai, mai. Quando hai chilometri e chilometri nelle gambe gli ultimi sono un tormento, aggravato dal terrore di aver sbagliato strada. Finalmente un muro, un cancello, un portone, un campanello (a corda, bellissimo) e nessuno che risponde. Per lunghissimi secondi, poi minuti e poi una ragazza gentilissima ci apre e ci apre la porta di in un parco che a me ricorda all’istante il Giardino Segreto. Veniamo sottoposti a svariate torture da check-in (molto ben intenzionate: succo di frutta, fetta di torta, facciamo subito le fotocopie dei documenti), tu vorresti solo fiondarti sotto la doccia. Mi tolgo le scarpe, cammino scalza sul prato. Respiro.
Oggi sul sito di Casas do Rio non ritrovo i servizi per i pellegrini, ma quando prenoti prova a chiedere. A noi hanno fatto il bucato (la meraviglia del profumo del bucato, oh my) e ci hanno prenotato un ristorante in teoria vicino, ma per noi irraggiungibile. Il proprietario ci è venuto a prendere e, dopo aver scoperto la nostra provenienza, ha messo su una canzone italiana.
“Amore, ma questa è Hop hop somarello”
“Mafe, ti avevo detto che era meglio non bere il decimo bicchiere di Albarinho.”
“Ascolta bene”
Era Hop hop somarello. In quel momento la tibia di Filippo ha capito che non potevamo tornare indietro.
Casas do Rio è uno dei posti in cui voglio tornare, anche se so che, se non ci arrivo a piedi, non potrò godermi nello stesso modo il momento in cui ho messo i piedi nell’acqua gelata della piscina. La morbidezza del letto. Il lusso di una vera colazione. Saremo anche viziati, ma da pellegrini ci si gode tutto come se fosse la prima volta.