Reputazione, buone maniere e altre vecchie storie

Convinta come sono che Internet faccia parte ormai della nostra vita quotidiana, esattamente come il telefono, il televisore o i voli di linea, mi scontro spesso con chi vuole farne invece risaltare l’eccezionalità, che sia in negativo o in positivo poco conta.

Questo è vero soprattutto quando si parla di trovare lavoro: è ancora molto diffusa la convinzione (errata) che la capacità di usare Internet e una presenza consapevole sui social media siano competenze utili solo se cerchi un lavoro legato alla Rete o alla tecnologia. Per questo ho trovato particolarmente interessante l’aggiornamento 2013 della ricerca di Adecco su «Digital Reputation & Social Recruiting» che ci dice che il 94% delle aziende usa i social media come strumento di recruiting (e che il 47% dei candidati non li ha mai visti come possibile fonte di contatti di lavoro).

Il dibattito nato su Twitter intorno alla presentazione della ricerca ha subito messo in evidenza due cose per me molto importanti. La prima è che continuiamo a fare molta confusione tra privacy e reputazione, usando i due concetti quasi come sinonimi. La seconda è che le resistenze all’uso dei social media o un loro utilizzo strumentale in molti casi impediscono di trovare o di essere selezionati per un lavoro, qualificandosi come abilità sociali tout court e in quanto tali fondamentali per essere scelti. Non si tratta qui di farsi notare o di “vendersi”, ma proprio di esserci e di esserci in modo coerente con il proprio curriculum e il proprio stile personale.

Ho approfondito questi due punti con Silvia Zanella – Marketing & Communication Manager di Adecco Italia:

La reputazione online può essere compromessa dalla gestione della privacy sui social network o dipende soprattutto dai comportamenti dei candidati?

Sono due aspetti che vanno di pari passo, e che partono da una premessa comune: la consapevolezza della propria identità digitale. Rispetto al tema della gestione della privacy, quindi, è importante avere ben chiaro chi può accedere ai nostri contenuti e chi no, e fissare bene i paletti dei nostri diversi network. Per quanto riguarda il comportamento, deve prevalere il buon senso: chiedersi sempre se faremmo o scriveremmo la stessa cosa se ci trovassimo di fronte al nostro capo in ufficio.

Dalla ricerca emerge che nel 12% dei casi i responsabili delle risorse umane hanno escluso dei candidati per le informazioni che hanno trovato in rete. È possibile avere qualche dettaglio in più? Erano informazioni legate alla sfera personale o professionale?

In questa edizione dell’indagine non abbiamo investigato specificamente i motivi di esclusione, ma dalle interviste che abbiamo fatto e dalle risposte ad altre domande emerge con chiarezza che le aziende cercano da un lato di capire se c’è coerenza tra quanto dichiarato nel curriculum e quanto verificabile on line (ad esempio informandosi sulla rete di contatti o sui gruppi frequentati dal candidato), dall’altro di sincerarsi che i contenuti pubblicati non siano troppo distanti (per stile e approccio) rispetto a quello che il selezionatore si aspetta. Lo standing è importante anche on line.

Non si tratta a mio parere di evitare certi contenuti o di sottolinearne altri, ma di imparare, una volta per tutte, a considerare Internet come parte del mondo in cui abitiamo, mondo in cui, anche in tempi meno connessi, una buona o cattiva reputazione ha sempre fatto la differenza, anche perché “ci sei anche se non lo sai” vale anche per le persone, non solo per le aziende.

Ci sono 3 commenti

  1. Ciao Alessandro, molte delle risposte alle tue domande sono nella ricerca, è interessante, guardala.

    Sono molto d’accordo che diventa rilevante la capacità degli HR di valutare quanto trovano con la stessa intelligenza che si aspettano da chi stanno valutando, però mi sembra che tu continui a vedere i social media in modo molto autoreferenziale. Un tempo c’erano i pettegolezzi, le referenze e – per alcuni profili – gli investigatori privati, oggi sei tu stesso che racconti te stesso, se per esempio scrivi “ah ah, mai guidato un muletto in vita mia, li ho inculati” non vieni valutato in quanto “social media expert” ma in quanto pirla (e capita, eccome se capita).

    Nessun datore di lavoro è interessato a come bevi la birra al bar, ma se ogni sera inizi a dare fastidio e qualcuno deve accompagnarti a casa perché sei troppo ubriaco, beh, ti assicuro che al tuo capo interessa eccome, anche se non lo posti su Facebook.

  2. Questa visione delle persone è quantomeno distorta a mio avviso.
    In molti casi i social media (sopratutto Fb) portano con se la sfera più intima e a volte goliardica delle persone.
    È come se il mio capo dovesse giudicarmi per come bevo la birra al bar con i miei amici.
    Quindi ritengo molto sensato analizzare la sfera sociale per individuare il profilo di una persona a patto che gli HR siano in grado di valutare i Social secondo i canoni con i quali presumono che le persone utilizzino gli stessi.
    Non nascondo molti dubbi su queste capacità che come sempre risiedono in persone che devono essere professioniste e professionali nell’uso degli strumenti.
    Ma a parte queste riflessioni…. I datori di lavoro richiedono questo tipo di analisi ?
    Per quali profili a senso ?
    Se devo guidare un muletto è importante la mia sfera sociale?
    Altra riflessione/domanda qualcuno analizza il profilo sociale del datore di lavoro prima di accettare :-))) ?

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