Le mille e un milione di notti

Un romanzo è reale, anche se non fatto di atomi: è incredibile quanto sia poco evidente la somiglianza tra i mondi cognitivi della narrativa, dell’immaginazione, del gioco e della creatività e quelli creati dalle piattaforme digitali.

Una storia non nasce finita: c’è sempre un mondo intorno, altre strade possibili, le vite dei personaggi secondari e tutto quello che è successo prima e dopo della scelta del narratore. Un tempo le storie fluivano di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, di villaggio in villaggio. Viaggiavano con le persone e si arricchivano a ogni tappa, aperte a qualunque arricchimento esterno. Erano storie infinite, ma disperse: vivevano solo per il tempo del racconto per venire poi affidate alla memoria.

Quando la stampa ha creato l’autore, permettendo copie identiche di una storia con “The end” alla fine, abbiamo tutti dimenticato che la risoluzione del conflitto è solo l’inizio di una nuova avventura. Di una nuova puntata. Ma cosa succede quando ne vogliamo ancora e poi ancora? Succede Quentin Tarantino, il successo delle serie tv e le riscritture dei personaggi e delle storie che amiamo di più, che siano fiabe o supereroi.

Sembra infatti che i primi a capire che una storia vuole sempre e comunque uscire dai confini siano stati i lettori e i produttori televisivi e di Hollywood, meno interessati alla letteratura e all’arte ma più abili a cogliere i segnali deboli in arrivo dal pubblico. E se dietro la serializzazione ci fosse la voglia, il desiderio, il bisogno di non uscire mai dai mondi narrativi che amiamo? La fine delle fini non è la rinuncia alla risoluzione del conflitto narrativo, ma la richiesta di sapere se davvero “vissero felici e contenti” ancora, e ancora, e ancora.

Un medium infinito e permanente

“Solo chi diviene può capire il divenire” (Michail Bachtin)

Una storia è un vero e proprio campo di forza, una realtà che vive nella mente di chi la crea (che sia uno o molti) e di chi la abita (che ascolti, legga, guardi o quel che sarà). È un campo di forza che ci incuriosisce, ci attrae, si fa testare e in cui decidiamo di entrare e di immergerci, per uscirne quasi sempre malvolentieri [Sturm 2000].

”Il sogno di ogni vero lettore, allorché, terminato un romanzo, sente nascere in sé una nostalgia acuta per i personaggi che ha appena abbandonato, è che prima o poi gli dicano: ecco un libro in cui ne ritroverai alcuni, di quei personaggi, e ti verranno narrate altre vicende che li riguardano.” [Bardotti 2011]

Ecco, io mi chiedo: se avessimo un medium narrativo infinito e permanente avremmo ancora storie finite? Perché ce l’abbiamo, anche se continuiamo a non vederlo come mondo da abitare insieme ai nostri personaggi preferiti ma come spazio da riempire di cose da dimenticare per passare oltre.

Accecati dal tecno-determinismo, continuiamo a prestare attenzione ai formati e non alle storie: continuiamo a pensare che il futuro del romanzo siano le narrazioni multiautore, gli ipertesti o i romanzi di tweet o le o i romanzi-gioco che lasciano scegliere al lettore la direzione preferita. Ci meravigliamo molto – molti con sollievo – quando questi formati non funzionano, o perché illeggibili, o perché di qualità narrativa talmente bassa da far dubitare che gli autori stessi li leggano. Non c’è niente di male, anzi: la scrittura, classica o sperimentale, è un’attività utile e piacevole in sé, ma qui stiamo parlando d’altro.

Questa ingegnerizzazione del raccontare non si addice né al lettore, che vuole immergersi in una storia senza preoccuparsi della sua dinamica, né tantomeno allo scrittore, che in quanto primo lettore può non trovarsi particolarmente a suo agio con i meccanismi narrativi che richiedano decisioni meccaniche. A mio parere il futuro delle storie sono i mondi narrativi permanenti, mondi in cui entrare e da cui non uscire mai più, sia immergendosi nelle storie altrui, sia creandone di proprie, derivate oppure completamente originali. Non è semplice e i tentativi fatti finora non sono convincenti, ma forse è proprio perché facciamo ancora più attenzione al contenitore che al contenuto. “It’s not the technology that entertains people, it’s what you do with the technology.” [Lasseter 2015]

Verso un nuovo formato narrativo: ripensando il cronotopo

Per Bachtin la novità assoluta del romanzo, oltre al plurilinguismo (che possiamo rileggere come apertura a formati e supporti diversi) è il suo essere ambientato nel presente quotidiano, anziché in un passato eroico. Il romanzo, anche quando narra del tempo che fu, è la cronaca di un tempo che fluisce, di un quotidiano.
“Il presente è qualcosa di transeunte, un fluire, un’eterna continuazione senza principio e senza fine; è privo di vera compiutezza e, quindi, di essenza” [Bachtin 1938, p. 199]

È l’autore a decidere arbitrariamente di isolare una fetta di tempo e raccontarla: il prima e il dopo di una storia esistono anche se non narrati, esattamente come fuori campo esistono le storie di tutti gli altri personaggi e le alternative possibili a tutte le scelte narrative fatte.
Quello che è successo è che all’improvviso abbiamo preso a raccontare tutto il resto e a screditarlo come forma di arte minore, popolare e commerciale: la fanfiction, le serie televisive e le innumerevoli riscritture dei classici.

“L’assenza di compiutezza e esauribilità interna [del romanzo, nda] porta a un netto rafforzamento delle esigenze di una compiutezza e esauribilità esterna e formale, soprattutto d’intreccio. In modo nuovo si pone il problema dell’inizio, della fine e della completezza.” [Bachtin, 1938, p. 211]

Il cronotopo, letteralmente tempo-spazio, se ripensato in un medium infinito e permanente, sembra davvero la soluzione al problema del ciclo di vita di una narrazione: ovunque e in ogni momento ci sia qualcuno immerso in una storia, quella storia sta avvenendo, e adesso possiamo far sì che questo avvenga non solo nella nostra mente ma anche in un tempo-spazio digitale e fisico capace di ospitarla. Il castello, il salotto, la provincia, il tinello di un certo cinema italiano, lo spazio, la frontiera, l’ospedale di molte serie televisive anche molto diverse tra loro sono tutti cronotopi che possono risiedere in modo permanente grazie alla capacità del software di creare e mantenere mondi che ha già trasformato il mondo dei videogiochi.

Facile a dirsi, difficile a farsi, a meno di non accettare che il punto di partenza potrebbe assomigliare molto di più a un’edizione totale di tutte l’opere di un autore con le connessioni già presenti esplicitati in una continuity transmediale che a un libro aumentato o a un sito come Pottermore.

Storie-mondo

Il faut être absolument moderne (Arthur Rimbaud)

Da quando e da quanto tempo gli scrittori condividono i personaggi, come fanno per esempio Bret Easton Ellis e Jay McInermey con Alison Poole? Da quando e da quanto tempo gli autori dimensionano il loro lavoro in base ai limiti del numero di pagine o di durata per poter costruire la vera storia che hanno in testa e che devono a tutti i costi raccontare, come King che ha aspettato tutta la vita per pubblicare 22/11/63 e mettere insieme IT e Lee Harvey Oswald, Derry e Dallas?

Bianca Pitzorno (2015), raccontando la genesi del suo “La vita sessuale dei nostri antenati”, libro nato per suo divertimento personale, parla già di dare un destino migliore a un personaggio nel prossimo libro. Con 52 libri alle spalle è uno degli esempi più interessanti di mondo narrativo disperso, con “riferimenti che tornano perché sono esperienze che fanno parte della mia vita, ovviamente transfigurate”.

Un po’ come la Napoli di Elena Ferrante, i cui libri sono riscritture da varie prospettive della stessa donna e della stessa città, con una quadrilogia a mio parere divisa per limiti fisici di spazio a magazzino e di marketing editoriale, ma che avrebbe potuto benissimo fluire verso i lettori via via che veniva scritta. Sarebbe stata una storia diversa? Attenzione: qui non parliamo di scrivere in base ai giudizi – impliciti o espliciti – dei lettori, ma di un autore che può seguire il flusso della storia senza doversi preoccupare del numero di pagine, del costo della carta, del peso degli atomi.

Sempre Pitzorno racconta di aver rinunciato a un’edizione illustrata sia per problemi di attribuzione di molte immagini sia per realismo produttivo, dimostrando quanto i limiti della fisicità condizionino la libertà espressiva degli autori. Il Maine di Stephen King e i Territori sono tenuti insieme dalla Torre Nera allo stesso modo, un modo che Robert Browning non avrebbe potuto neanche immaginare (il suo poema Childe Roland alla Torre Nera è la principale ispirazione dichiarata da King).

Il successo commerciale spesso distoglie l’attenzione dai motivi veri che spingono a certe scelte narrative: scriviamo sempre più saghe perché vendono o vendono perché gli autori di saghe hanno capito prima degli altri che poche centinaia di pagine o decine di minuti non bastano né a loro né a noi? Hollywood ha finito le idee o ha un’idea completamente nuova e cioè usare il cinema, le conversazioni, i giochi e le serie televisive per arricchire le narrazioni più amate scrivendo storie nuove? La ricchezza del mondo degli Avengers e degli X-Men, per esempio, sembra un sintomo di fertilità, così come la messa in scena di significati nuovi dei classici, come in Maleficent, in cui è l’amore della matrigna e non del principe a risvegliare la Bella Addormentata.

In Elementary, ennesima declinazione per immagini in movimento di Sherlock Holmes, Watson è una donna: la libertà narrativa si esprime sciogliendo i vincoli ma rimanendo fedeli al testo, al senso e al significato di storie che continuano a vivere perché “absolutement moderne”. È come se l’aura di cui Benjamin temeva la scomparsa (Benjamin 1936) fosse ricomparsa in posti decisamente inattesi, non nell’irripetibilità dell’esperienza ma nella sua serializzazione in multiversi.

La commedia umana: il grande romanzo di Facebook

“La posta del lavoro letterario (della letteratura come lavoro) è quella di fare del lettore non più un consumatore, ma un produttore di testo.” (Roland Barthes)

E se i social media fossero la realizzazione suprema del romanzo scriptible di Roland Barthes? “All’improvviso scriviamo tutti, perché è così che ci si manifesta in rete, perché smartphone e computer sono prima di tutto macchine per scrivere con biblioteca incorporata.”, così scrivevo quattro anni fa, aggiungendo “Li chiamiamo social media perché tali sono: media, per l’appunto, media creati da noi e dai nostri amici e non da professionisti pagati per farlo, che si occupano e continueranno a farlo dei media di massa, pur con tutte le contaminazioni del caso.

Twitter, Facebook, i blog personali & co sono media perché pochi scrivono (e pochissimi scrivono cose interessanti) e molti, moltissimi leggono.” Oggi direi che moltissimi scrivono e moltissimi leggono e che molti scrivono storie derivate, dalla fanfiction (che magari porta a risultati di grandissimo successo commerciale come la trilogia di Cinquanta sfumature di grigio, nata come fanfiction di Twilight) al role-playing che porta a impersonare su Twitter un personaggio di una serie televisiva alla narrativizzazione del sé, spesso confusa con esibizionismo ma molto più semplicemente espressione del puro divertimento di mettersi in scena non solo con gli abiti e il trucco ma anche con i testi, le foto e i racconti delle proprie giornate.

Se Balzac nascesse oggi probabilmente scriverebbe La commedia umana facendo una curation di foto, tweet e status: su Facebook troviamo la versione narrata, una specie di bella copia delle vite di molti di noi. Lo chiamiamo esibizionismo mentre è la versione moderna del romanzo nel cassetto, un romanzo fatto di storie pensate per insinuarsi nelle micropause, dal ritmo e dall’impegno paragonabile ai 45 minuti circa delle puntate dei serial televisivi o ai paragrafi corti, cortissimi di molti bestseller.

Il lettore non è più solo tale e diventa un autore che ha se stesso come personaggio, liberandosi così dalla realtà non solo quando si immerge in mondi narrativi altrui ma anche quando li crea. Pubblicandoci sui social media diventiamo “parola altrui”, come ben descritto in questo passaggio di Dostoevskij. Poetica e stilistica: “La libertà del personaggio è un momento del disegno dell’autore. La parola del personaggio è creata dall’autore in modo che essa può fino all’ultimo dispiegare la sua interna logica e autonomia come parola altrui, come parola del personaggio stesso” (Bachtin 1929, p. 89)

In questo mondo di lettori-autori, in questa polifonia involontaria e a tratti un po’ schizofrenica, gli autori lisible sono quelli più in difficoltà, poco disposti ad affrontare non la fine del libro, ma la fine della fine che permette di liberarsi di una storia, di un mondo e dei suoi personaggi. Non tutti sono come JK Rowling che, pur avendo (forse) abbandonato la saga di Harry Potter, continua a pubblicare nuovi retroscena delle storie della saga su Pottermore.

È un diritto dell’autore abbandonare la sua storia-mondo, ovviamente, oppure scomparirci dentro, fino all’estremo di restare anonimi, come Elena Ferrante, che spiega così la sua scelta “Once I knew that the completed book would make its way in the world without me, once I knew that nothing of the concrete, physical me would ever appear beside the volume—as if the book were a little dog and I were its master—it made me see something new about writing. I felt as though I had released the words from myself”.

Per i romanzieri contemporanei quindi uscire dalla tirannia fisica del “libro finito” non sembra desiderabile, mentre altri narratori – soprattutto sceneggiatori e progettisti di videogiochi – sembrano molto più a loro agio con l’idea non solo di continuity ma anche di una mappa uno a uno della narrazione, una mappa a tre dimensioni coincidente con l’umanità intera in cui tutti leggiamo, scriviamo e soprattutto narriamo interpretando una parte.

Conclusioni

“Chi ha iniziato a giocare non ha più smesso” (Matteo Tarantino)

Noi siamo immersi nella nostra mente e vogliamo pensare pensieri che ci piacciono. Entrare e restare in narrazioni, conversazioni e giochi è la strategia più efficace che abbiamo per sfuggire non alla realtà ma a pensieri che non ci piacciono. Un romanzo è reale, anche se non fatto di atomi: è incredibile quanto sia poco evidente la somiglianza tra i mondi cognitivi della narrativa, dell’immaginazione, del gioco e della creatività e quelli creati dalle piattaforme digitali.

“Persi in chiacchiere”, diciamo sia per spregio sia per diletto: noi umani siamo abituati a perderci in un altrove creato dalla nostra testa e sempre più spesso questi altrove mentali si fondono, collassano, diventano lo stesso mondo permanente e infinito. Matteo Tarantino (2011) parla di “casual gaming”, Filippo Pretolani (2014) di “scrittura involontaria” e io aggiungo a questi due mondi il role-playing tipico delle conversazioni digitali, in cui siamo sempre più consapevoli di avere un pubblico piccolo ma comunque superiore a quello delle conversazioni dal vivo. Entriamo e usciamo da mondi immersivi che la tecnologia ci aiuta a rendere permanenti, personali e pervasivi.

Adesso che abbiamo un medium infinito per natura stiamo imparando da Sherazade a narrare storie che non muoiano, storie con cui ci conquistiamo il domani ogni volta che ci entriamo dentro e da cui giocoforza non vogliamo mai uscire, perché perché ”reality is broken” (McGonigal 2011) e riscriverla e reinventarla è l’unico modo per sopravvivere al game over, forse l’unica vera religione rimastaci.