Precari senza orologio

C’è un piccolo esercito di persone che, senza dichiarare guerra a nessuno, ha scelto quello che, quando imposto, viene definito precariato. Sono una di loro e lo sono soprattutto perché l’idea di dovermi alzare la mattina per vestirmi e scaraventarmi in un altro posto dove stare per un tot di ore senza poter uscire mi è sempre sembrata strana. Non noiosa, faticosa o pesante: strana. Non vedo niente di male nel vendere il mio tempo, le mie capacità e la mia disponibilità: trovo solo strano doverlo fare in un posto altro, spesso rumoroso e abitato da persone che mai avrei scelto di frequentare e doverlo fare in un tempo preciso, non entro un tempo preciso come sarebbe naturale.

Siamo pochini, lo so, ma siamo sempre di più: soprattutto donne, ma non solo, soprattutto in certi ambiti professionali, che ci sono lavori che hanno senso solo in un posto preciso (ma in quel caso andarci un senso ce l’ha). Scegliere il precariato può sembrare una bizzarria, ma c’è un motivo per cui le professioni nobili si dicono anche libere, no? Ma non è di questo che voglio parlare, voglio parlare di quelli che invece hanno bisogno di uscire di casa la mattina e di avere confini precisi di luogo e soprattutto di tempo. Persone come la mamma di Eusebito in Gli autonauti della Cosmostrada di Julio Cortázar e Carol Dunlop:

In effetti è molto piacevole pensare che possiamo partire ogni volta che ne abbiamo voglia, qualsiasi giorno della settimana, ma in generale preferiamo che la domenica cada di domenica. Quando proviamo a muoverci di martedì o di giovedì, non è la stessa cosa.

L’età dei miracoli di Karen Thompson Walker racconta una catastrofe climatica decisamente particolare: le giornate si allungano a infinito, il sole sembra non tramontare più e quando tramonta sono le notti ad allungarsi all’infinito e il sole sembra non sorgere più finché i periodi di luce non durano giorni e le notti non durano giorni e quindi il concetto stesso di “giorno” (per non parlare di quello di “domenica”) perde completamente di significato. Nel libro due catastrofi avanzano in parallelo, quella climatica e quella sociale. Senza giornate di 24 ore non ci sono più campanelle di scuola, non ci sono più cartellini da timbrare, non ci sono più chiusure di Borsa e orari ferroviari. Per il clima c’è poco da fare, per il calendario arriva una legge che rende obbligatorio seguire il Tempo dell’Orologio, anche se le dieci di mattina capitano a notte fonda, anche se le due di notte arrivano con il sole che splende. Devi dormire di giorno e uscire a prendere l’autobus nelle ore più fredde e buie prima dell’alba. Devi vivere secondo un ritmo deciso da altri per motivi non tuoi, ormai completamente diverso dai ritmi della natura.

Nel libro c’è un piccolo esercito di persone che si rifiuta e finisce rapidamente ai margini della società. Speriamo che a noialtri vada meglio.

(Repost)

Ci sono 3 commenti

  1. Io ho sempre trovato strano il fatto delle 8 ore lavorative. E’ impossibile che un’azienda abbia sempre la stessa mole di lavoro, come è invece normalissimo che le persone siano più veloci/lente ad apprendere/agire. Ma no! Tutti in fila a timbrare il cartellino, in fila in mensa, in ordine sparso in uscita. Certo ogni scelta comporta il rovescio della medaglia, però a volte la competitività e le inimicizie, in ambito lavorativo vanno a penalizzare la qualità del lavoro. E’ per questo che a volte i compiti a casa (senza aiuti) vengono meglio della verifica in classe.
    Ovviamente IMHO.

  2. Il tema è importante e un po’ “è anche di moda” (non lo dico per svilirlo, ma per segnalare che sul punto mi pare si rifletta da più parti). Mi vengono in mente due riflessioni per “integrare”: 1) in parte lo diceva l’articolo, ci sono mestieri che si possono permettere il non-luogo preciso, altri no; ci sono mestieri che vanno fatti non “entro un tempo preciso”, ma “in un tempo preciso”, e penso che per la maggior parte dei lavori – e in particolari per quei lavori che si innestano in particolari snodi organizzativi e di comunità – sarà sempre così. 2) Ecco, mi è sfuggito il termine “comunità” e allora lancio un po’ la provocazione: è vero, è snervante spesso andare in un posto altro, in un luogo altro, non scelto, condiviso con persone non scelte; epperò questo è anche il mondo, la vita, che non possiamo sempre sceglierci noi. Capisco benissimo il ragionamento e la bellezza di potersi muovere liberamente, ma mi chiedo se non ci sia il rischio di un distacco anche dagli altri, che il lavoro ci spinge (“costringe”) a incontrare. Certo, oggi si soffre molto per un eccesso di stress, per un eccesso anche di conflitti sul luogo di lavoro (o di competizione). Ma se scegliamo sempre la libertà c’è il rischio di una solitudine che alla lunga forse può non farci bene.
    Due riflessioni al volo, per continuare a discutere. Comunque post interessante, grazie.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.
Tutti i campi sono obbligatori.

Puoi usare questi tag e attributi HTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>